Eccolo là il Fenomeno. Pronto a dire, puntualizzare. Precisare. Perché lui è preciso. Lui sa. Cos’è e com’è una cafe racer, tanto per cominciare. Ecco, tanto per cominciare. Cominciamo a chiamarla come si deve. Cafe racer, senza accento sulla E, perché è un neologismo inglese coniato negli anni Sessanta per indicare una moto sportiva da bar. Anzi da café, come si diceva a Parigi anche se poi a Londra lo pronunciavano cafài. Non importa che fosse davvero sportiva. Una cafe racer poteva essere così elaborata da avere un motore trapiantato in un telaio di moto e marca diversa. Più spesso si limitava scimmiottare le moto da Tourist Trophy. La differenza era così sottile che a volte non esisteva.

Spesso le cafe racer erano le stesse moto di tutti i giorni alle quali i piloti amatoriali toglievano il superfluo e nastravano il fanale con una vistosa X nera per correre nelle clubman races, le gare amatoriali del weekend. Erano uno spirito da condividere.

3

Per essere sicuro dell’etimologia, una volta lo chiesi direttamente da Mark e Linda Wilsmore, gli attuali proprietari e gestori dell’Ace Cafe London. «Oh, allora le chiamavano special e basta, perché erano moto modificate dai loro proprietari. Il termine cafe racer arrivò dopo». Semmai i Ton-Up Boys veri, quelli del Suicide Club da cento miglia orarie (dati i freni), lo usavano per denigrare le moto e i pilotini all show no go, tutta scena e poche MPH. Ecco, tutto qui. Nessuna sapienza da custodire, nessun guardiano del tempio, solo manate di gas e abilità da funamboli per tenere in strada quelle trappole lanciate nell’umidità implacabile delle serate inglesi.

Moto da sparo, insomma. Da strappo secco stile Reunion. One-two-three come l’attacco di un pezzo rock’n’roll, come le marce da buttare dentro con rapidità e decisione. Una cafe racer è una questione di cuore. Se ne avete uno, portatelo sul rettilineo di Monza per far sentire a tutti come batte. Come corre. Preoccupatevi di non perdere troppo olio, non la gara. Divertiamoci. Ai tag (e al filler) penseremo poi.